Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Contraddittorietà della motivazione e autosufficienza del ricorso: dalla Suprema Corte un decalogo perfettibile (di Andrea Chelo, Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Cagliari)


Quello dei limiti di deducibilità di fronte alla Corte di Cassazione del vizio di motivazione è uno degli snodi ermeneutici più complessi, vieppiù perché i casi e le modalità di deduzione del vizio, allorquando inerente alla contraddittorietà della motivazione rispetto al dato probatorio acquisito in giudizio, sono stati dalla giurisprudenza individuati in modo variabile e non sempre prevedibile, fino alla creazione di un principio come quello di autosufficienza del ricorso dai confini non ben definiti. Trattandosi di un tema estremamente delicato, sul quale si gioca la partita dell’effettività dei controlli, il contributo cerca di affrontarlo nella sua evoluzione storica, normativa e giurisprudenziale, verificando, in conclusione, quale possa essere la chiave esegetica compatibile con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Contradictory reasoning and “self-sufficiency of the appeal”: guidelines by the Supreme Court that can be improved

The plea in law, before the Supreme Court, concerning defective reasoning is one of the most complex hermeneutic themes, because the defect consisting in contradictory reasoning with respect to the evidentiary data acquired in the court is been identified by case law in a variable and not always predictable way, up to the creation of a principle, such the “self-sufficiency of the appeal”, that has undefined boundaries.

The article tries to address this extremely delicate issue, in which the effectiveness of controls is at stake, in its historical, regulatory and jurisprudential evolution, verifying, in conclusion, its compatibility with the Constitution and with the European Convention of Human Rights.

La Suprema Corte ribadisce alcuni principi in materia di ricorso per vizio di motivazione MASSIMA: Con riferimento al motivo di ricorso di cui all’art. 606, lett. e), c.p.p.: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne deduce il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di Cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto; d) non è consentito, in caso di cd. “doppia conforme”, eccepire il travisamento della prova mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni fattuali già devolute in appello soprattutto quando la censura riguardi il medesimo compendio probatorio non avendo la Corte territoriale attinto a prove diverse da quelle scrutinate in primo grado. Quando si deduce in sede di legittimità il difetto di motivazione per omessa valutazione o travisamento di specifici atti è necessario: a) indicare l’atto processuale omesso o travisato; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo, decisivo la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato. PROVVEDIMENTO: [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1. Il sig. E.M. ricorre per l’annullamento della sentenza dell’11/06/2020 della Corte di appello di Catania che, in riforma della sentenza del 16/09/2019 del Tribunale di Catania, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato e da lui impugnata, ha diminuito la pena rideterminandola nella misura di un anno e otto mesi di reclusione e 6.000,00 Euro di multa, confermando nel resto la condanna per il reato di cui all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma [continua..]

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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. I limiti di deducibilità del vizio di motivazione: mancanza e manifesta illogicità - 3. Il vizio di travisamento della prova prima della modifica operata dall’art. 8 della l. 20 febbraio 2006, n. 46 - 4. Il vizio di travisamento della prova dopo la modifica del 2006: la contraddittorietà della motivazione rispetto ad atti del procedimento - 5. Il contenuto dello scrutinio di contraddittorietà della motivazione: quando una prova può dirsi travisata - 6. La decisività del travisamento della prova ai fini dell’affermazione di un vizio di motivazione - 7. L’autosufficienza del ricorso quale principio strumentale alla dimostrazione del vizio di contraddittorietà della motivazione - 8. L’autosufficienza torna ad essere sinonimo di specificità: il protocollo tra Corte di Cassazione e C.N.F. e l’introduzione dell’art. 165 bis norme att. c.p.p. - 9. Conclusioni: il nuovo significato di “autosufficienza” alla luce del diritto di accesso alla giustizia sancito dalla Cedu - NOTE


1. Premessa

Nella sentenza in commento la Suprema Corte, valutando l’impugnazione proposta dall’imputato per il vizio di travisamento della prova per omissione, prima di soffermarsi sulle ragioni di doglianza ricostruisce, quasi didatticamente, il vizio in questione, individuando i casi e i modi nei quali esso può venire validamente dedotto di fronte al giudice di legittimità. Ne vien fuori una sorta di decalogo, utile all’interprete, che definisce puntualmente i limiti del sindacato della Suprema Corte sulla motivazione, secondo la posizione assunta in termini pressoché unanimi dalla giurisprudenza e che offre lo spunto per alcune riflessioni. Il provvedimento, in aggiunta, consente di approfondire il tema dell’effettiva portata del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, strumentalmente connesso al vizio di travisamento della prova. Nell’esegesi del principio, peraltro, la sentenza non pare in linea con l’attuale quadro normativo, poiché per invocarlo si attesta su posizioni da considerarsi oramai superate dall’introduzione dell’art. 165 bis norme att. c.p.p. con il criticabile effetto di rivitalizzare un onere che, in realtà, dovrebbe oggi ritenersi escluso nei termini affermati dal Collegio.


2. I limiti di deducibilità del vizio di motivazione: mancanza e manifesta illogicità

Il primo tema affrontato dalla sentenza in nota è quello dell’effettiva portata del vizio di motivazione quale motivo di impugnazione in sede di legittimità. Il provvedimento vi si approccia così come costantemente fa il Supremo Collegio; per comprendere al meglio la ratio e il processo evolutivo di questa esegesi diventa, però, necessario analizzare la diversa ampiezza riconosciuta normativamente, nel tempo, al vizio in questione. È noto, infatti, che il vaglio della Corte di Cassazione sulla motivazione ha un orizzonte circoscritto: per unanime giurisprudenza, il controllo deve limitarsi, stando al dato normativo, a riscontrare l’esi­stenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, restando preclusa una verifica dell’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento. Peraltro, con riferimento alla illogicità, dall’utilizzo da parte del legislatore del 1988 dell’aggettivo manifesta si è ricavata la necessità che la carenza della motivazione, per essere denunciabile, debba consistere in una illogicità evidente e, quindi, percepibile ictu oculi. È così che la Corte ha sempre ritenuto di poter apprezzare solo rilievi macroscopici, ritenendo ininfluenti le minime incongruenze, sino a spingersi ad affermare che le deduzioni difensive che non vengono espressamente confutate ma che sono logicamente incompatibili con la decisione adottata devono essere considerate implicitamente disattese, sempre che le ragioni del convincimento del giudice vengano spiegate in modo logico e adeguato [1]. Vi è da aggiungere che la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dallo stesso apparato motivazionale, con la conseguenza che il motivo di doglianza che deduca tali vizi dovrà dimostrare che quella del provvedimento non è una motivazione in quanto tale [2], ovvero che essa è priva di logica: non può infatti opporsi alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, rimanendo irrilevante la diversa lettura o interpretazione degli atti di causa [3].


3. Il vizio di travisamento della prova prima della modifica operata dall’art. 8 della l. 20 febbraio 2006, n. 46

Dall’entrata in vigore dell’attuale codice e fino al 2006, il testo normativo prevedeva che mancanza e manifesta illogicità fossero, peraltro, gli unici vizi della motivazione deducibili con ricorso. Rispetto all’art. 475, comma 1, n. 3, c.p.p. 1930, infatti, il nuovo codice non conteneva alcun riferimento alla contraddittorietà: questa, comunque, sub specie di contraddittorietà logica, veniva considerata vizio deducibile in quanto espressione di una più generale illogicità della motivazione, allorquando fosse apprezzabile nei termini di un «contrasto tra le premesse o tra queste e la conclusione della decisione» [4]. In buona sostanza, la contraddittorietà veniva considerata espressione di una manifesta illogicità comprendente tanto le ipotesi di violazione dei canoni della logica deduttiva, quanto quelle di violazione delle regole del ragionamento argomentativo [5]. È innegabile, però, che sia sempre stata vista con timore, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la possibilità dell’omessa valutazione di una prova (qualora una prova decisiva non venga tenuta in alcuna considerazione dalla motivazione della sentenza), ovvero di un suo travisamento (in tutti i casi in cui il risultato probatorio ricavato dal giudice e indicato in motivazione sia difforme rispetto all’elemento probatorio risultante nel processo). Pertanto, vigente il codice del 1930, pur in assenza di un’espressa previsione, la giurisprudenza aveva ricondotto le predette ipotesi di omessa valutazione e travisamento nell’alveo del vizio di motivazione capace di determinare la nullità della sentenza impugnata: ciò in ragione del combinato disposto di cui agli artt. 475, n. 3, e 524, n. 3, c.p.p. 1930 [6]. Secondo il Supremo Collegio, in tal caso il sindacato di legittimità era pur sempre circoscritto ad una verifica sulla completezza e correttezza della motivazione ed era volto ad accertare, sul punto, solo che il processo formativo del libero convincimento non avesse subìto il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti, altrettanto negativi, di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova [7]. Con l’entrata in vigore del nuovo codice, peraltro, il problema della prova omessa o travisata era rimasto irrisolto, dato lo stretto confine imposto dal legislatore per la [continua ..]


4. Il vizio di travisamento della prova dopo la modifica del 2006: la contraddittorietà della motivazione rispetto ad atti del procedimento

A ben vedere, prospettando, ai fini della proposizione della doglianza, la necessità in capo al ricorrente di una puntuale indicazione documentale del travisamento, la giurisprudenza aveva individuato quelle che sono state le linee della modifica legislativa del 2006 [28], che, in parte qua, inevitabilmente ha recepito il dictum giudiziale. Rilevantissima fu l’innovazione [29] introdotta, all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dall’art. 8 della l. 20 febbraio 2006, n. 46, anche se, come già si è detto, la censura, in sede di legittimità, del vizio di contraddittorietà della motivazione era già nota nell’abrogato codice di rito. In precedenza, infatti, il vizio deducibile era considerato quello meramente intratestuale, che si risolveva, cioè, in una contraddittorietà intrinseca della motivazione. Quest’ultima, peraltro, poteva verificarsi in tre diverse situazioni: in caso di contraddittorietà interna, ovverosia nell’ipotesi di impossibile conciliazione fra loro delle argomentazioni contenute in parte motiva; in caso di contrasto tra la motivazione ed il dispositivo; in caso di contraddittorietà tra i capi della stessa sentenza [30]. A seguito della novella, il nuovo motivo di impugnazione declinato dalla disposizione codicistica, attinente al vizio della parte motiva della sentenza, ora contempla i casi di «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione» [31], con la specificazione che il vizio deve risultare «dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame»: in sostanza, ci si trova di fronte ad un vizio che tende a garantire la fedeltà della sentenza al processo [32]. Ovviamente, il riferimento agli «altri atti del processo» assume rilevanza esclusivamente in relazione alla contraddittorietà della motivazione, considerato che essa solo postula un referente esterno a differenza della mancanza e della manifesta illogicità. E qui, come facile notare, sta la vera novità, che non è rappresentata solo dalla previsione della contraddittorietà della motivazione quale vizio autonomamente censurabile, bensì anche – e soprattutto – dal riferimento ad un elemento esterno (gli atti del processo) quale termine di confronto per [continua ..]


5. Il contenuto dello scrutinio di contraddittorietà della motivazione: quando una prova può dirsi travisata

Inquadrato nei termini di cui sopra il vizio di contraddittorietà, ben si comprende come il problema avvertito dalla giurisprudenza sia stato principalmente quello di individuare i casi nei quali la prova potesse effettivamente dirsi travisata. Lasciando in disparte il caso della valutazione di una prova inesistente, la soluzione adottata dai giudici di legittimità è stata quella di ritenere rilevante il travisamento evidente [47], ovvero quello che, a seguito di una mera operazione di constatazione oggettiva, che non comporta alcun apprezzamento di merito [48], si verifica quando il risultato probatorio posto a base del convincimento è oggettivamente ed incontrovertibilmente differente da quello desumibile dagli atti processuali [49]. Ne consegue, dunque, che l’errore deducibile ricorre esclusivamente qualora il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su un determinato elemento che si riveli insussistente o, per come esposto nel provvedimento impugnato, incontestabilmente diverso da quello reale, ovvero abbia trascurato un elemento esistente e decisivo, così determinando un intervento del giudice di legittimità che non consista in una reinterpretazione degli elementi valutati dal giudice del provvedimento impugnato, ma nella mera verifica della sussistenza e del contenuto di tali elementi [50]. È chiaro che, in uno scrutinio di contraddittorietà formulato nei termini anzidetti, il problema maggiore si palesi in riferimento alla prova testimoniale o, più in generale, alla prova dichiarativa, i cui contenuti hanno spesso una dimensione che riflette la percezione del dichiarante: pertanto, secondo la giurisprudenza, qualora una tale prova sia assunta quale referente della contraddittorietà della motivazione, l’oggetto della stessa deve essere del tutto definito o deve attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile [51] (il testimone ha dichiarato che l’auto era verde ma il giudice afferma in motivazione che l’auto era rossa; il perito ha affermato che la morte sarebbe avvenuta cinque giorni prima del ritrovamento del cadavere mentre il giudice, in sentenza, scrive che l’exitus risalirebbe a cinque ore prima [52]). In buona sostanza, la giurisprudenza si è sin da subito orientata per escludere che la modifica operata nel 2006 all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. abbia [continua ..]


6. La decisività del travisamento della prova ai fini dell’affermazione di un vizio di motivazione

Infine, un ulteriore aspetto di fondamentale rilevanza in riferimento alla deducibilità, quale vizio della motivazione, del travisamento della prova è rappresentato dalla sua decisività [61]. Quest’ultima, in qualche caso, è stata concepita come l’idoneità dell’elemento probatorio a determinare una soluzione differente rispetto a quella prescelta dal giudicante [62], ma una tale definizione potrebbe essere fuorviante se non opportunamente precisata. È costante, infatti, l’indirizzo – certamente ragionevole – della Corte regolatrice secondo cui non è consentita al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, ovvero l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, che vengano indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito [63]. In questo contesto, dunque, per contemperare le opposte esigenze, si è ritenuto che il vizio debba essere considerato decisivo solo qualora l’elemento probatorio travisato oppure non valutato sia dotato di una eccezionale forza dimostrativa [64]. In buona sostanza, come si è peraltro già accennato supra, per la giurisprudenza è decisivo il vizio che rende la motivazione logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di un’autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticola l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determina al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione, ovvero rendere la stessa manifestamente incongrua o contraddittoria [65]. Di converso, secondo la giurisprudenza, la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione – che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività – non potranno dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio [continua ..]


7. L’autosufficienza del ricorso quale principio strumentale alla dimostrazione del vizio di contraddittorietà della motivazione

Orbene, il provvedimento in nota, dopo aver chiarito la portata del vizio di contraddittorietà, si sofferma sull’onere incombente sul ricorrente, che intenda dedurre l’omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, di suffragare la validità del suo assunto, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto sia già stato dedotto in sede di appello), dovendosi altrimenti ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso. L’affermazione, a ben vedere, ha radici storiche e in parte è superata. Certo, è, infatti, che esiste un legame inscindibile, di natura strumentale, tra il vizio di contraddittorietà della motivazione e il principio di autosufficienza del ricorso; d’altronde, come la dottrina ha posto in evidenza [70], la stabile comparsa del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione in ambito penale può essere fatta risalire proprio alla modifica normativa operata dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46, che ha reso deducibile la contraddittorietà della motivazione, «quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame» [71]. È con l’introduzione della contraddittorietà della motivazione e con l’ampliamento della fonte da cui essa può emergere – non il solo testo del provvedimento impugnato ma anche altri atti del processo – che la giurisprudenza penale ha iniziato ad invocare il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, nato in precedenza in ambito civilistico; più precisamente, dalla necessità che “gli altri atti del processo” fossero specificamente indicati nei motivi di impugnazione [72], si è ricavata non solo la necessità di una “specifica indicazione”, ma, addirittura, quella di una riproduzione testuale integrale se non addirittura di una allegazione. È fuor di dubbio che il legislatore, con la novella normativa, abbia inteso far corrispondere all’ampliamento dell’ambito di deducibilità del vizio un [continua ..]


8. L’autosufficienza torna ad essere sinonimo di specificità: il protocollo tra Corte di Cassazione e C.N.F. e l’introduzione dell’art. 165 bis norme att. c.p.p.

Quest’ultima disposizione è stata introdotta tra le norme di attuazione del codice di rito (d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271) dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 [75]. Si tratta di una disposizione contenuta in un decreto legislativo attuativo della cosiddetta “riforma Orlando” che però era stata già concepita nell’ambito dei lavori della “Commissione ministeriale incaricata di redigere uno schema di decreto legislativo in materia di impugnazioni penali”, presieduta da Domenico Carcano. Secondo la norma in questione, «nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi, copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), del codice; della loro mancanza è fatta attestazione». La nuova disposizione persegue, ovviamente, l’obiettivo di rendere più facile la consultazione del materiale necessario per la valutazione del vizio di motivazione censurato in ricorso [76], ricollegandosi, peraltro, alle previsioni contenute nel protocollo sottoscritto nel 2015 tra la Suprema Corte e il Consiglio Nazionale Forense [77] e completando le indicazioni dallo stesso fornite per il tramite di adempimenti burocratici che ne agevolano l’operatività [78]. Si sono creati, cioè, i presupposti necessari perché la garanzia dell’autosufficienza sia un incombente dell’ufficio, che non gravi più ingiustamente sul ricorrente, il quale rimane onerato di redigere un motivo preciso, che consenta in primis alla cancelleria di individuare l’atto processuale che si ritiene in contrasto con la motivazione ed in relazione al quale è formulata la doglianza. Pertanto, a seguito dell’adozione del protocollo (che aveva previsto la riproduzione, in calce al ricorso, di un elenco degli atti specificamente indicati nello stesso) e dell’entrata in vigore dell’art. 165 bis norme att. c.p.p. (che onera la cancelleria della materiale estrazione dal fascicolo ed allegazione di tali atti), il principio di autosufficienza pare aver assunto una nuova dimensione, riqualificandosi quale corollario del più antico principio di specificità [continua ..]


9. Conclusioni: il nuovo significato di “autosufficienza” alla luce del diritto di accesso alla giustizia sancito dalla Cedu

Così ricostruito, il principio non pare porsi in contrasto con il diritto di accesso alla Giustizia riconosciuto a livello costituzionale e convenzionale. E una tale ermeneusi si auspica: non deve dimenticarsi, d’altronde, che l’autosufficienza è stata considerata dalla giurisprudenza un requisito del ricorso a pena di inammissibilità ed una sua rigida interpretazione entra naturalmente in tensione con il principio del necessario riconoscimento della tutela giurisdizionale. Prima della modifica normativa, infatti, l’invalsa esegesi del principio ha mostrato talvolta degli eccessi di formalismo che hanno avuto l’effetto di non rendere concreto ed effettivo il diritto al ricorso alla Giustizia; una situazione stigmatizzata di recente dalla Corte e.d.u. in riferimento al procedimento civile [80], in seno al quale è stato criticato l’eccessivo formalismo dei criteri di redazione del ricorso. Il ragionamento seguito dalla Corte di Strasburgo è semplice: pur muovendo dal presupposto che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione è «destinato a semplificare l’attività della Corte di Cassazione e allo stesso tempo a garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia», la Corte procede a verificare se le restrizioni all’accesso alla Suprema Corte di Cassazione dipendenti dall’applicazione di tale principio siano effettivamente proporzionate; e in questo scrutinio – che in un caso si è risolto con una condanna dell’Italia – i giudici di Strasburgo ritengono possano salvarsi solo quelle limitazioni che non vengono interpretate «in modo troppo formale […] o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa» del diritto di accesso ad un tribunale. E allora, poiché troppo spesso dalla lettura di molti provvedimenti del Supremo Collegio si è avuta la sensazione che si stesse ingiustamente incidendo sulla sostanza di tale diritto [81], un cambio di rotta è imprescindibile oltre che imposto normativamente: anche se il carico giudiziario è tanto, l’inammissi­bilità dei ricorsi non è la soluzione.


NOTE
Fascicolo 2 - 2022