Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Sul divieto di custodia cautelare per reati relativamente ostativi (di Sonia Tognazzi, Dottoranda di ricerca – Università degli Studi di Siena)


Muovendo dall’applicazione del principio di proporzionalità alla materia cautelare, la Corte di Cassazione afferma che il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere, qualora il giudice ritenga che la pena da irrogare all’esito del giudizio non sarà superiore a tre anni, ha validità anche nei procedimenti per i reati di cui all’art. 4 bis, comma 1 ter, o.p. in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni. Il divieto opera a condizione che l’istante dimostri l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, salvo che le concrete modalità esecutive del fatto, la personalità degli autori e l’entità del danno non siano già dimostrative dell’inesistenza di tali legami. è apprezzabile lo spirito garantista della pronuncia, mossa dalla necessità di un allineamento alle posizioni della Corte costituzionale in materia di automatismi preclusivi. Tuttavia si colgono le criticità di un’interpretazione che ricava il criterio di scelta della misura cautelare da una regola del diritto penitenziario, tipicamente prevista per il trattamento dei condannati per criminalità organizzata.

About the prohibition of pre-trial detention for impeding crimes

As first affirming the role of the principle of proportionality on precautionary measures matter, the Court of cassation affirms that the rule which prohibits pre-trial detention when the judge considers that the sentence to be imposed on the outcome of the trial will not exceed three years can be applied even in the proceedings for the crimes punished by the law at art. 4 bis, paragraph 1 ter, o.p., in the case of a prison sentence not exceeding three years. The prohibition applies if the applicant proves that he has no connection with the organized crime, unless the particular way of the committed crime, the personality of the offender, and the extent of the damage, are sufficient to demonstrate the absence of such a connection. The guarantor spirit of the judicial sentence is commendable, as it responds to the need to follow the orientation of the constitutional Court regarding the rejection of inflexible preclusive rules. However, it is necessary to notice a critical point when the criteria used for choosing the precautionary measure come from a rule of penitentiary law, imposed for the treatment of organized crime convicted.

Vietata la custodia cautelare in carcere in assenza di collegamenti con la criminalità organizzata se la pena irrogata è inferiore ai tre anni MASSIMA: In tema di misure cautelari, in base all’interpretazione letterale del combinato disposto degli artt. 275 bis c.p.p. e 4 bis ord. pen. il divieto di applicazione e mantenimento della custodia cautelare in carcere ove sia intervenuta una condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore a tre anni di reclusione, opera anche nei procedimenti per rapina aggravata, qualora non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. In tema di misure cautelari, in base all'interpretazione letterale del combinato disposto degli artt. 275 bis cod. proc. pen. e 4 bis ord. pen. il divieto di applicazione e mantenimento della custodia cautelare in carcere ove sia intervenuta una condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore a tre anni di reclusione, opera anche nei procedimenti per rapina aggravata, qualora non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. (In motivazione, la Corte ha sottolineato che il relativo onere della prova grava sull'istante, trattandosi di un fatto positivo a vantaggio dello stesso, ma tale assenza di collegamenti può essere anche implicitamente dedotta sulla base delle modalità esecutive della condotta o dalla personalità degli autori). PROVVEDIMENTO: [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1.1 Con ordinanza in data 8 aprile 2021, il tribunale della libertà dei minori di Milano respingeva l’appello avanzato nell’interesse di (omissis) avverso il provvedimento del G.I.P. dello stesso tribunale che aveva respinto la richiesta di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere alla stessa applicata in quanto gravemente indiziata del reato di concorso in rapina. 1.2 Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagata, tramite il proprio difensore avv.to (omissis), il quale deduceva, con unico motivo, violazione di legge per avere il tribunale della libertà dei minori errato nell’interpretazione dell’art. 275 comma 2 bis cod. proc. pen. il quale prevede che in tutti i casi di irrogazione di pena inferiore a tre anni non possa essere applicata la misura cautelare della custodia in carcere; tale disposizione doveva essere interpretata nel senso che fossero condizioni escludenti sia la condanna per uno dei reati di cui all’art. 4 bis ord. pen. che l’assenza di luoghi ove scontare la pena in regime di arresti domiciliari. E nel caso di specie, pertanto, la sola condanna per il reato di rapina aggravata a pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione non poteva avere efficacia ostativa all’applicazione di una misura meno gravosa. CONSIDERATO IN DIRITTO 2.1 Il ricorso è fondato nei [continua..]

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SOMMARIO:

1. Misure cautelari e trattamento penitenziario: le premesse della riflessione - 2. la traduzione del principio di proporzionalità nel divieto di custodia cautelare: l’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. - 3. Il significato del richiamo all’art. 4 bis o.p. nel contesto cautelare - 4. La lettura combinata degli artt. 275, comma 2 bis, c.p.p. e 4 bis, comma 1 ter, o.p. - 5. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Misure cautelari e trattamento penitenziario: le premesse della riflessione

Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione propone un’audace sintesi tra due universi paralleli [1], attraverso un’inedita lettura combinata di disposizioni dettate per ambiti disciplinari diversi, quanto a finalità e princìpi ispiratori. Da un punto di vista sistematico, la riflessione della Corte si muove entro coordinate normative che riguardano momenti distinti della giustizia penale, ossia la fase cautelare e l’esecuzione penale. Quanto all’oggetto specifico d’indagine, l’attenzione è concentrata sui criteri di giudizio seguiti dal giudice nella scelta della misura cautelare e nell’applicazione di un beneficio penitenziario. In particolare, il contesto normativo di riferimento è quello che emerge dagli artt. 275, commi 2 e 2 bis, c.p.p., e 4 bis, comma 1 ter, o.p.: il primo riguarda il criterio di proporzionalità nella scelta della misura cautelare e, nello specifico, della custodia in carcere; il secondo esplicita le ipotesi criminose – c.d. reati ostativi – per i quali l’accesso ai benefici penitenziari è condizionato dalla presenza di requisiti specifici. In proposito, l’esistenza nel nostro ordinamento di un doppio binario penitenziario, che differenzia il trattamento dei soggetti condannati per reati comuni da quello dei condannati per reati di criminalità organizzata, rende la ricostruzione proposta dalla Corte – già complicata per la disomogeneità delle materie comparate – ancor più difficile. Infatti, le regole limitative previste per l’ammissione ai benefici dei condannati per reati di criminalità organizzata, ampiamente derogatorie rispetto ai princìpi generali dell’ese­cuzione penale, non sono suscettibili di estensione al di fuori del perimetro tracciato dalla legge. Entro la descritta cornice normativa la Corte individua il parametro per l’applicazione concreta del principio di proporzionalità, in relazione al mantenimento della custodia cautelare in carcere dopo che sia stata emessa sentenza di condanna alla pena della reclusione inferiore a tre anni per uno dei reati di cui all’art. 4 bis, comma 1 ter, o.p.


2. la traduzione del principio di proporzionalità nel divieto di custodia cautelare: l’art. 275, comma 2 bis, c.p.p.

Limite all’uso del potere cautelare e metro di giudizio sulla bontà del bilanciamento tra esigenze collettive ed istanze individuali [2], il principio di proporzionalità trova espressa previsione nell’art. 275, comma 2, c.p.p. in relazione alle misure cautelari personali, ossia nel momento di massima tensione tra le istanze di efficienza della giustizia penale e la garanzia della libertà personale [3]. La misura cautelare deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla pena che sia stata o si prevede possa essere irrogata, attesa la necessità di un rapporto diretto tra il grado di afflittività della misura provvisoria e quello della sanzione definitiva. L’esigenza di guidare la discrezionalità del giudice nell’applicazione concreta del canone di proporzione per i casi più gravi e l’urgenza di riparare all’atavico problema del sovraffollamento carcerario [4] hanno portato all’introduzione del comma 2 bis dell’art. 275 c.p.p., ad opera del decreto-legge n. 92 del 2014, poi convertito con modifiche nella legge n. 117 del 2014. Secondo la norma, la custodia cautelare in carcere non può essere applicata quando è prevedibile la concessione della sospensione condizionale della pena o l’irrogazione di una pena detentiva non superiore ai tre anni. In questi casi, in cui è presumibile che l’eventuale condanna non aprirà le porte del carcere, il legislatore considera sproporzionato il ricorso alla più grave delle misure limitative della libertà personale. Fin dall’entrata in vigore del decreto-legge del 2014 la giurisprudenza si è interrogata sulla portata operativa del divieto in relazione al tempo della cautela. In particolare, occorreva chiarire se il divieto operasse solo nel momento genetico della custodia cautelare in carcere o anche nella fase successiva del suo mantenimento. Nonostante il tenore letterale della disposizione abbia consentito interpretazioni contrastanti, la giurisprudenza si è infine orientata ad estendere l’operatività del divieto anche alla “fase successiva alla prima applicazione e, in particolare, quando la condanna ostativa alla custodia in carcere, quella non ultra triennale, concretamente si verifichi” [5]. La chiave di lettura della costruzione è desumibile dall’art. 13 Cost. e dal [continua ..]


3. Il significato del richiamo all’art. 4 bis o.p. nel contesto cautelare

La questione che la Suprema Corte è chiamata a risolvere riguarda la legittimità del mantenimento della custodia in carcere, a seguito di condanna a pena detentiva inferiore ai tre anni, in un procedimento per un reato di cui all’art. 4 bis, comma 1 ter, o.p. – nello specifico, per rapina aggravata – nei confronti di una persona indagata minorenne. Secondo l’ordinanza impugnata, la condanna per quel titolo di reato è ostativa all’applicazione di una misura meno gravosa della custodia cautelare in carcere, anche se la pena inflitta è inferiore ai tre anni di reclusione. Il ragionamento del Tribunale pare articolarsi in questo modo: l’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. vieta l’applicazione della custodia in carcere in caso di prognosi di condanna a pena detentiva non superiore ai tre anni; la medesima disposizione peraltro deroga al divieto per i procedimenti per i delitti di cui all’art. 4 bis o.p. Poiché la rapina aggravata è reato contemplato dall’art. 4 bis o.p., ne deriva che il mantenimento della custodia in carcere è legittimo anche dopo l’intervenuta condanna a pena inferiore ai tre anni. La Corte di Cassazione, nel disattendere simili conclusioni, ritiene invece operativo il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere anche all’ipotesi considerata, “quando non vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. Secondo la Corte, il richiamo che l’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. opera all’art. 4 bis o.p. consente di adottare un’”interpretazione letterale del combinato disposto delle due norme”, in virtù della quale l’assenza di legami con la criminalità organizzata, che già opera come presupposto per la concessione dei benefici penitenziari, costituisce anche condizione del divieto di mantenimento della custodia cautelare in carcere. Per comprendere la portata applicativa di tale esegesi occorre un breve cenno alla disciplina prevista dall’art. 4 bis o.p. in materia di trattamento penitenziario dei condannati per reati di criminalità organizzata. Come è noto, la necessità di contrastare l’espansione del fenomeno mafioso sul territorio italiano ha portato all’introduzione nel sistema normativo di diritto penale, processuale e [continua ..]


4. La lettura combinata degli artt. 275, comma 2 bis, c.p.p. e 4 bis, comma 1 ter, o.p.

Il ragionamento della Corte si fonda sulla necessità di coordinamento tra previsioni normative: “posto che la norma [art. 275, comma 2 bis, c.p.p.] richiama i delitti di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, è a tale disposizione che occorre fare riferimento per l’individuazione del catalogo dei reati ostativi al mantenimento della custodia in carcere anche in caso di irrogazione di pena inferiore ai tre anni”. La Corte parte dalla premessa che “in tema di benefici penitenziari per i soggetti condannati per il delitto di rapina aggravata, gli stessi possono essere concessi purché non sussistano elementi per affermare il collegamento con il crimine organizzato”, per concludere che: “… in base alla stessa interpretazione letterale del combinato disposto delle due norme (art. 275 comma 2 bis cod. proc. pen. e 4 bis ord. pen.), il divieto di applicazione e mantenimento della custodia cautelare in carcere opera per la rapina aggravata ove sia intervenuta condanna inferiore a tre anni, quando non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. L’argomentazione evidenzia una certa fragilità, poiché il mero richiamo normativo non riveste di per sé una particolare capacità esplicativa. Tuttavia, è apprezzabile il valore innovativo della chiave di lettura proposta nel passaggio in cui si afferma che il giudice cautelare “dovrà esaminare quegli elementi che, ove chiaramente dimostrativi dell’assenza di qualsiasi collegamento con il crimine organizzato, determinano la sussistenza del divieto di cui all’art. 275 comma 2 bis cod. proc. pen., non giustificandosi la protrazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di soggetti autori di fatti per il quale sia stata irrogata una pena assai mite ed ai quali potranno anche essere concessi i benefici penitenziari”. Sotto questo profilo la decisione appare ispirata ad una esigenza di coerenza sistematica, che impone di evitare l’anticipata privazione della libertà personale per quei soggetti che all’esito della condanna potranno presumibilmente beneficiare dell’esecuzione della pena in modalità alternativa. In altri termini, si vuole evitare che la custodia cautelare, da misura strumentale al processo quale deve essere, sia [continua ..]


5. Considerazioni conclusive

Lo spirito della decisione è certamente apprezzabile nella misura in cui circoscrive entro limiti più definiti l’operatività della deroga al divieto di custodia cautelare, in applicazione del principio di proporzionalità. Certo suscita qualche perplessità la soluzione concretamente proposta, secondo la quale è l’assenza di collegamenti con la criminalità che rende automaticamente valido il divieto di custodia in carcere. In primo luogo, non convince la regola probatoria individuata dalla Corte, secondo cui “è onere dell’istante provare che, intervenuta una condanna a pena inferiore a tre anni per il delitto di rapina aggravata, scatta il divieto di mantenimento della custodia cautelare in assenza di elementi atti a dimostrare il collegamento con il crimine organizzato”. “Tale dimostrazione [...] incombe certamente sull’istante trattandosi di fatto positivo a vantaggio del medesimo condannato”. L’onere probatorio imposto dalla Corte a carico dell’imputato riguarda “l’assenza di elementi atti a dimostrare il collegamento con il crimine organizzato”. Si tratta di una lettura inedita, per cui quella che in fase di esecuzione penale è una prova positiva rimessa al pubblico ministero diventa, nella parentesi cautelare del giudizio di cognizione, una prova negativa a carico dell’imputato che richieda la revoca o la sostituzione della misura. Tale soluzione pare porsi in contrasto con il sistema, nella misura in cui l’onere di fornire la prova di un fatto negativo è posto a carico di un presunto innocente, il quale è di regola libero prima dell’esito definitivo del processo [41]. La regola indicata dalla Corte – per la quale spetta all’istante l’onere di provare l’assenza dei collegamenti con la criminalità – rivela un altro profilo critico laddove si specifica che “tale dimostrazione [...] può però ritenersi implicita in quei fatti di rapina che per le loro modalità esecutive, per la personalità degli autori, per la natura dei beni sottratti, per l’assenza di armi od altri oggetti atti ad offendere, dimostrino ex se l’assenza di collegamenti con il crimine organizzato”. Tale lettura induce a ritenere che in alcune ipotesi – la cui individuazione pare rimessa alla discrezionalità del [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2022