Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Effetti della l. 9 gennaio 2019, n. 3 sull'esecuzione penale e sul trattamento penitenziario (di Paolo Scotto di Luzio)


L’inclusione, ad opera della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (“Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministra­zione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) dei delitti contro la pubblica amministrazione tra i “reati ostativi” previsti dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario in funzione di contrasto della corruzione, postula una poco meditata equiparazione normativa delle forme di criminalità politico-economica al crimine organizzato ed è destinata a significative ed immediate ricadute pratiche sulla materia dell’esecuzione penale, incidendo sul regime di ordinaria sospensione delle condanne pronunciate prima della riforma. La modifica legislativa introduce un’inedita forma di collaborazione processuale ai fini dell’ac­cesso alle misure alternative, problematica sul piano sistematico e difficilmente esigibile dal condannato in stato di detenzione; interviene, infine, in deroga ai principi ordinari, sugli effetti estintivi della pena espiata in regime di affidamento in prova.

The Unprecedented Effects introduced by L. n. 3/2019 on the Penitentiary System

Law no. 3 of 2019 submits convicted of corruption-related offences under special detention regime pursuant to article 4 bis of the Italian Penitentiary System. The law has equalized, with immediate effects, the “hard” detention regime for criminal conspiracy convicts to “white collar” criminals and it does not allow for the suspension of the enforcement orders. The art. 4 bis provides access to probation only from the state of detention and subjects the probation to collaboration with the law enforcements authorities. The regulation doesn’t seem suitable for convicts in state of detention and could be unreasonable.

SOMMARIO:

La legge contro la corruzione e la natura ostativa dei delitti contro la p.a. ai fini dell'accesso ai benefici penitenziari - L'art. 4bis della legge di ordinamento penitenziario e il regime differenziato di esecuzione penale - Sospensione dell'ordine di esecuzione della pena. Il rinvio all'art. 4bis operato dall'art. 656 c.p.p. Il regime intertemporale dell'esecuzione delle condanne per i delitti ostativi contro la p.a. - La collaborazione ai sensi dell'art. 322bis per l'accesso ai benefici penitenziari - L'attenuante della particolare tenuità del fatto - La collaborazione a norma dell'art. 58ter della legge di ordinamento penitenziario - Collaborazione irrilevante e ravvedimento - Effetti estintivi dell'affidamento in prova sulle pene accessorie e la deroga per l'interdizione perpetua - NOTE


La legge contro la corruzione e la natura ostativa dei delitti contro la p.a. ai fini dell'accesso ai benefici penitenziari

Approvato al Senato in seconda lettura, il 13 dicembre 2018, con ricorso al voto di fiducia, il disegno di legge recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” ha trovato definitiva approvazione il 18 dicembre 2018, in terza rapida lettura alla Camera dei Deputati, ed è stato pubblicato come legge 9 gennaio 2019, n. 3. In ragione delle forme in cui è avvenuta la sua approvazione [1] la legge si compone di un unico articolo e 30 commi e reca, nella prima parte, modifiche a norme di diritto penale sostanziale e processuale e, per quanto qui interessa, alla legge di ordinamento penitenziario 26 luglio 1975, n. 354. In particolare, i commi 6 e 7 intervengono, rispettivamente, sul comma 1 dell’art. 4-bis e sul comma 12 dell’art. 47. Si tratta di modifiche direttamente incidenti sul regime dell’esecuzione della pena e dell’accesso ai benefici penitenziari. Il comma 6 della legge in commento aggiorna, infatti, il catalogo o elenco dei c.d. reati ostativi di prima fascia, inserendo al comma 1 dell’art. 4 bis i delitti di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis [2] c.p. Il risultato di tale interpolazione è che anche i condannati per taluno dei reati menzionati non possono essere assegnati al lavoro all’esterno, né beneficiare dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della l. n.354 del 1975 [3], se non alla condizione che vi sia collaborazione con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della medesima legge ovvero, in ciò sostanziandosi l’ulteriore novità, a norma dell’articolo 323 bis, comma 2, c.p.


L'art. 4bis della legge di ordinamento penitenziario e il regime differenziato di esecuzione penale

L’art. 4-bis della legge di ordinamento penitenziario è stato introdotto con d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (“Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”), convertito in l. n. 203 del 1992. Nella sua originaria versione consentiva ai condannati per delitti c.d. ostativi di accedere ai benefici penitenziari sopra menzionati solo se fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Oggetto di trattamento penitenziario differenziato erano infatti i condannati per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti di cui agli artt. 416-bis e 630 c.p. e all’art. 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. Il regime fu inasprito con l’art.15 del d.l. n. 306 del 1992, convertito nella l. n. 356 del 1992, che provvide alla sostituzione dell’intero testo del comma 1 dell’art. 4-bis. Tale intervento era specificamente e unicamente finalizzato all’inasprimento del regime detentivo dei condannati di mafia nei confronti dei quali si chiedeva, per la prima volta, la collaborazione quale condizione esclusiva per l’accesso ai benefici penitenziari e si giustificava «nell’esigenza di adeguare l’intero sistema penitenziario agli ormai intollerabili livelli di pericolosità sociale raggiunti dal triste fenomeno della criminalità organizzata» [4]. Dopo l’insanguinata stagione dei primi anni ‘90 del secolo scorso, la norma ha subìto ripetuti rimaneggiamenti, radicando regimi differenziati di detenzione sulla base della natura del reato commesso dal condannato [5]. Nelle intenzioni del legislatore sono manifeste e del tutto prevalenti, nell’opera di ripetuta riscrittura della norma, le esigenze di prevenzione generale, sul presupposto che la natura dei reati commessi, inizialmente quelli [continua ..]


Sospensione dell'ordine di esecuzione della pena. Il rinvio all'art. 4bis operato dall'art. 656 c.p.p. Il regime intertemporale dell'esecuzione delle condanne per i delitti ostativi contro la p.a.

Tralasciando al momento i rinvii all’art. 4-bis contenuti diffusamente all’interno della legge di ordinamento penitenziario [10], è opportuno rammentare che a far data dall’entrata in vigore della legge in commento, l’ordine di esecuzione della sentenza di condanna per taluno dei delitti di nuovo inserimento di cui all’art. 4-bis, comma 1, non potrà essere sospeso, quando anche la pena irrogata sia inferiore a quattro anni di reclusione [11]. La sospensione dell’ordine di esecuzione è regolata dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p. che individua, in generale, il limite di pena entro il quale essa deve essere disposta, al fine di consentire al condannato di presentare istanza «volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione di cui agli articoli 47, 47ter e 50, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e di cui all’articolo 94 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, ovvero la sospensione dell’esecuzione della pena di cui al­l’articolo 90 dello stesso testo unico». L’attuale disciplina della sospensione è il risultato dell’integrale sostituzione dell’art. 656 c.p.p. operata dalla l. 27 maggio 1998, n. 165 [12]. La modifica legislativa deriva dalla sentenza n. 569 del 1989 [13], con cui la Corte costituzionale estese a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova, sull’assunto che «il solo elemento significativo per l’affidamento in prova al servizio sociale dei condannati a pena detentiva fino a tre anni è l’osservazione del comportamento del reo ai fini della prognosi di idoneità alla rieducazione: osservazione che, secondo la legge, può utilmente avvenire tanto durante l’espiazione carceraria della pena quanto in libertà». Prima dell’intervento della Corte l’accesso alla misura era riservato alla sola popolazione carceraria. La Corte ebbe ad osservare «che sarebbe stato in linea di principio incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi potuto godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere» e che la condizione di una preventiva [continua ..]


La collaborazione ai sensi dell'art. 322bis per l'accesso ai benefici penitenziari

Quanto l’esito finale sia utile allo scopo dichiarato resta da verificare, se si considera che le condizioni di accesso ai benefici penitenziari per i condannati di cui si discute sono alternativamente previste nella collaborazione a norma dell’art. 58-terord. penit., ovvero a norma dell’articolo dell’art. 323-bis, comma 2, c.p. L’interpolazione dell’art.4-bis comporta, infatti, un rinvio espresso alla circostanza attenuante ad effetto speciale contemplata dal secondo comma dell’art.323-bisc.p, secondo cui la pena è diminuita in misura compresa tra un terzo e due terzi «per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’atti­vità delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite». L’attenuante, modellata secondo lo schema emergenziale tipico in tema di misure premiali, con lo scopo di interrompere il patto corruttivo, altrimenti destinato al segreto in ragione della reciproca convenienza, è volta pertanto a ottenere una collaborazione processuale, in relazione, peraltro, ad alcuni soltanto dei delitti ostativi contro la pubblica amministrazione, riguardando esclusivamente i reati di corruzione e di induzione indebita. Non mette conto qui soffermarsi sulle controverse questioni circa le condizioni per l’integrazione dell’attenuante in parola [25]; sembra però di dover rilevare che l’accertamento della collaborazione è affidato al giudice della cognizione e quindi l’accesso ai benefici penitenziari è necessariamente subordinato all’intervenuto riconoscimento di un’attenuante in senso tecnico ad opera del giudice di merito nella sentenza di condanna. Occorre dunque verificare se la modifica incida sul regime della sospensione dell’esecuzione della pena. Se, infatti, dovesse affermarsi l’indirizzo secondo cui il rinvio contenuto nel comma 9 dell’art.656 c.p.p. al catalogo di reati di cui all’art.4-bis osti alla sospensione dell’esecuzione della condanna inflitta, il collaborante a norma dell’art. 323-bis, comma 2, c.p, vedrà ritardare l’accesso alle misure alternative, in attesa delle decisone del magistrato di sorveglianza, azionabile da detenuto. La soluzione vanificherebbe, [continua ..]


L'attenuante della particolare tenuità del fatto

A ben vedere, tuttavia, dubbi sul piano della coerenza e della ragionevolezza pone la mancata eccezione nel corpo dell’art. 4-bis delle condanne per i delitti ostativi di nuova introduzione rispetto ai quali sia stata riconosciuta l’attenuante contemplata al comma primo del medesimo art.323 bis c.p., che prevede una diminuzione, nei limiti ordinari del terzo della pena, se i fatti sono di particolare tenuità. Occorre richiamare quanto sostenuto sin qui dalla giurisprudenza per ritenere del tutto verosimilmente che il regime ostativo delineato dall’art. 4-bis si dispieghi nella sua ampiezza, anche ove tale attenuante sia stata in concreto riconosciuta, in mancanza di ogni indicazione testuale contraria. La giurisprudenza ha affermato, in epoca del tutto recente, che «l’esclusione dai benefici penitenziari operata dall’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, con riferimento ai reati c.d. ostativi opera in relazione all’astratto titolo del reato giudicato, a nulla rilevando, in assenza di diversa ed espressa previsione di legge, che, concretamente, la sentenza di condanna riconosca un’ipotesi attenuata, incidente solo sul trattamento sanzionatorio» [29]. Da tale affermazione discendono rilevanti conseguenze anche in punto di legittimità della mancata sospensione dell’ordine di esecuzione [30]; l’art.656 c.p.p. rinvia, infatti, all’elenco dei delitti di cui all’art.4 bis e preclude ogni valutazione che attenga al trattamento sanzionatario concretamente applicato, senza dunque che rilevi l’intervenuto riconoscimento di circostanze attenuanti ai fini della sospensione. Si deve, tuttavia, rilevare che la Corte suprema ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis «nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ostativi, ivi indicati, il reato di cui all’art. 630 c.p., ove per lo stesso sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012» [31]. Il ragionamento che fonda l’incidente di costituzionalità muove dalla considerazione che è impossibile, alla luce dei dati testuali e del diritto vivente, una interpretazione dell’art. 4-bisord. penit. diversa da quella sopra riferita. È stata, infatti, sin qui negata [continua ..]


La collaborazione a norma dell'art. 58ter della legge di ordinamento penitenziario

L’alternativa per l’accesso ai benefici penitenziari dei condannati per i nuovi delitti ostativi è quella della collaborazione “ordinaria”, a norma dell’art. 58-terord. penit. Norma quest’ultima, pure oggetto di ripetuti rimaneggiamenti e la cui portata precettiva è oggi colta, con ragionevole margine di condivisione, nel fungere da «parametro di riferimento per l’accertamento, contenutistico e procedurale, del­l’intervenuta collaborazione» [34]. La collaborazione prestata, anche dopo la condanna, ai sensi dell’art.58-terord. penit., consente al detenuto per uno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis tanto l’accesso ai benefici, quanto di fruire dell’assegnazione al lavoro esterno, del permesso premio, della semilibertà, prima che maturino i termini più rigorosi singolarmente stabiliti per ciascuno di essi, rispettivamente dall’art. 21, comma 1 (un terzo della pena), dall’art. 30-ter, comma 4 (metà della pena), dall’art. 50, comma 2 (due terzi della pena). La collaborazione rilevante ai sensi delle disposizioni di ordinamento penitenziario consiste nell’es­sersi «adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero» nell’a­ve­re «aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati» (art. 58-ter, comma 1) [35]. L’accertamento delle condotte di collaborazione è demandato al giudice di sorveglianza. La collaborazione con la giustizia, qui esaminata, secondo consolidata interpretazione, non può essere generica né limitata all’ammissione delle proprie responsabilità. Quando vengano in essere condanne per reati mono soggettivi, in cui non vi siano altri correi da individuare, il contributo richiesto «deve essere più pregnante e non può consistere nella sola confessione, specie se il responsabile sia stato già individuato, ovvero nella ricostruzione di particolari secondari per l’accertamento della verità» [36]. Assumono rilievo non soltanto i comportamenti di collaborazione che ineriscono al delitto per cui è in esecuzione la [continua ..]


Collaborazione irrilevante e ravvedimento

Al di là delle ipotesi di minima partecipazione al fatto commesso, secondo quanto stabilito dal comma 1-bis dell’art.4-bis, che richiama i delitti di cui al comma 1 e dunque anche quelli di nuova introduzione, assume significato per la concessione dei benefici penitenziari, la collaborazione oggettivamente irrilevante, che non sia stata utile ai fini dell’accertamento della responsabilità. La ragione della previsione di cui al comma 1-bis dell’art.4-bis risiede nella constatazione che il condannato cui sia stata applicata la circostanza attenuante in parola ha già dato segni di ravvedimento, in ciò sostanziandosi l’offerta di collaborare, sia pure in un contesto in cui le responsabilità risultano integralmente accertate nella sentenza irrevocabile. Tale collaborazione presuppone, sul piano testuale, il riconoscimento, di una delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62, n. 6), c.p. Viene qui in considerazione, oltre al risarcimento del danno, effettuato anche dopo la condanna, la condotta di chi «prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56, [si è] adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato». Per conseguenze dannose o pericolose del reato si intendono quelle concernenti il danno penale, strettamente inerente alla lesione o al pericolo di lesione del bene giuridico tutelato dalla norma violata. È vero che la circostanza attenuante comune è collegata a una condotta realizzata prima del giudizio, non si può non rilevare, tuttavia, che l’art. 323-bis contempla, tra le condotte suscettibili di valutazione ai fini del riconoscimento dell’attenuante speciale l’essersi «efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori». Si tratta in entrambi i casi di forme di ravvedimento [39] la cui diversa incidenza sull’accesso ai benefici penitenziari dovrà essere adeguatamente valutata, tanto più se l’art. 323-bis c.p. sia interpretato nel senso che la norma non esiga «che la condotta tenuta abbia effettivamente raggiunto il suo scopo (in caso contrario non avrebbe ragion d’essere il connotato “finalistico” espresso dalla locuzione “per evitare [continua ..]


Effetti estintivi dell'affidamento in prova sulle pene accessorie e la deroga per l'interdizione perpetua

Il comma 7, art. 1, l. n.3 del 2019 interviene sull’art. 47 ord. penit., che regola l’affidamento in prova al servizio sociale, e segnatamente sul comma 12, al fine di escludere che l’esito positivo del periodo di prova estingua le pene accessorie perpetue. Il comma 12 dell’art. 47 ord. penit. stabilisce che l’esito positivo della prova estingue la pena detentiva e gli altri effetti penali. Compete al tribunale di sorveglianza, al termine dell’affidamento, stabilirne l’esito, positivo o meno, mediante valutazione del comportamento del condannato durante lo svolgimento dell’intero periodo di prova, al fine di decidere se la misura abbia comportato o meno il suo recupero sociale. In altri termini, l’effetto estintivo della pena non consegue automaticamente al mero decorso del periodo di prova, senza che sia intervenuta revoca, ma alla valutazione del giudice circa la bontà del percorso individuale intrapreso [42]. In questo senso si è sempre espressa la giurisprudenza contro le posizioni dottrinali che escludono la necessità di ogni giudizio discrezionale e collegano l’effetto estintivo alla mera conclusione del periodo di prova senza che sia intervenuta la revoca. Solo alla revoca è affidata la funzione di sanzione dei comportamenti incompatibili con i fini della rieducazione del condannato connessi alla misura. La positiva valutazione produce quindi l’effetto legale dell’estinzione della pena. Sull’individuazione delle conseguenze estintive [43] per quanto qui rileva si deve segnalare che la più recente giurisprudenza ha affermato che «l’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale determina l’automatica estinzione delle pene accessorie, posto che queste sono definite dall’art. 20 c.p. “effetti penali” della condanna e che l’art. 47, comma dodicesimo, legge 26 luglio 1975, n. 354, collega all’esito favorevole della prova l’estinzione, oltre che della pena detentiva, anche di “ogni altro effetto penale”» [44]. Per effetto dell’interpolazione dell’art.47 ord. penit. operata dalla l. n.3 del 2019 non sembra si debba dubitare che l’effetto estintivo dell’esito positivo dell’affidamento in prova riguardi le pene accessorie, dal momento che la disposizione ritaglia una nuova area di eccezione per quelle [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2019